LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE. UN CASO UNICO"

pagina creata il 25 settembre 2010 aggiornata il 25 maggio 2011

 

 

Vieni da “Contro i casi clinici”.

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“A favore dei casi clinici romanzeschi”,

che della pagina citata costituisce un complemento, forse una correzione parziale.

A un Congresso in memoria di Elvio Fachinelli (Firenze, 18 settembre 2010) ho avuto modo di rivedere, forse sotto l’influenza di quel grande psicanalista, prematuramente scomparso, le mie idee sui casi clinici, ammorbidendo la mia contrarietà ad essi. Ne riferisco parzialmente in questa pagina.

È assodato che i casi clinici non possono confermare la teoria acquisita, se questa è scientifica. Infatti, le teorie scientifiche non si confermano, ma si confutano. (0) Si confermano solo le dottrine imposte da qualche maestro alla scuola di pensiero da lui fondata. In realtà, le conferme confermano solo l'autorità magistrale. Sono conferme formali, esteriori, che non entranto nel merito dei contenuti dottrinari. E, di fatto, i casi clinici, esposti da psicanalisti conformati alla dottrina di una scuola, servono proprio a questo. Sono eventi interni alla scuola, finalizzati a un doppio scopo. Da un lato, pretendono confermare la dottrina del gruppo, quindi la sua coerenza e coesione sociale, garantita dall'autorevolezza del maestro; dall’altro, mirano a ribadire l’appartenenza del "clinico" alla scuola di cui fa parte. I casi clinici, insomma, fanno parte del rituale dell'appartenenza, come seminari, congressi, gruppi di studio. (1) Fuori dalla scuola non hanno né risonanza né rilevanza. Semplicemente non esistono. Tuttavia, al citato congresso ho imparato – caso rarissimo che a un congresso si impari qualcosa: significa che non è stato un congresso di scuola – ho imparato, dicevo, che l’argomento dell’irrilevanza scientifica dei casi clinici non è del tutto decisivo contro di essi. Ecco perché.

In realtà, la possibilità che il caso clinico funzioni da controesempio, che confuta una dottrina, fino a farla crollare dalle fondamenta, c’è, anche se assai remota. Da qualche parte – non so più dove – Freud stesso auspicava qualcosa del genere: che qualcuno gli riferisse un caso che smantellasse la propria metapsicologia. Forse era una sfida. Non è mai successo finora né ragionevolmente accadrà nel prossimo futuro. Per una ragione molto semplice. La dottrina freudiana appartiene, infatti, a quel genere epistemico di costruzione ideologica che spiega tutto. Quindi, tutto la conferma e nulla la confuta, basata com'è sul principio di ragion sufficiente, che per se stesso è empiricamente inconfutabile e teoricamente solo confermabile. Per altro, nel “caso” di Freud, il rapporto del caso clinico alla teoria non era modellato né sulla conferma né sulla confutazione. Da medico qual era, Freud andava costruendo la propria metapsicologia quasi ricalcandola caso per caso sui singoli casi. E un caso non può confutarne né confermarne un altro, essendo i casi singoli inconfrontabili nella loro unicità.

Come se ne esce? Tra confermare e confutare, tra affermare e negare, esiste una terza via? Sì, a patto di far decadere il principio del terzo escluso, come una lunga pratica intuizionista, all’insegna della matematica di Brouwer, mi ha insegnato. Freud la chiamava Urteilsverwerfung. Si può tradurre revisione del giudizio, che in via preliminare richiede la sospensione del giudizio precedentemente formulato. Insomma, si tratta di applicare un principio di prudenza epistemica. Spinoza pensava all'emendamento dell'intelletto. Da dove viene questa necessità "intellettuale"?

Per rispondere a questa domanda, mi avvicino a quanto ho appreso dal citato congresso. Il congresso, intitolato “Estasi laiche”, era dedicato all’ultimo libro di Fachinelli, La mente estatica (Adelphi, Milano 1989). Fachinelli fu un “freudiano di giudizio”. Usava Freud, nella propria pratica psicanalitica, ma criticava il freudismo, benché in modo meno virulento di me. Non era caritatevole con certi freudismi, veri e propri sintomi freudiani, per esempio il rifiuto del “sentimento oceanico” (ozeanisches Gefühl). Nel libro citato criticava l’analisi sommaria e convenzionale, in termini di complesso edipico, che Freud propose del suo famoso disturbo sull’Acropoli del 1904, ma riferito solo nel 1936 nella lettera a Romain Rolland. (2)

La mia lettura della proposta fachinelliana di una mente estatica riconosce la possibilità che il soggetto lasci cadere i rapporti convenzionali con la realtà quotidiana e la loro conseguente psicopatologia, per aprirsi a una realtà oggettuale diversa e poco usuale. Che nome dare a questa realtà? Chi frequenta questo sito sa il nome che do alla realtà dell’oggetto: è la realtà – poco realistica – dell’oggetto infinito del desiderio. Un'imprudenza, la mia. Fachinelli è più prudente di me. Nel suo libro La mente estatica non parla di oggetto infinito. Non parla di infinito, ma cita autori che ne parlano in termini più o meno paradossali: il matematico indiano Bhaskara, che correla l’infinito allo zero, Artaud, e Lacan, che nell’ultimo Seminario VII parla di desiderio infinito, per altro solo metaforicamente, come ciò che eccede ogni misura.
La prudenza di Fachinelli è giustificata. Non si può parlare concettualmente dell’oggetto infinito, perché quella dell’infinito è una struttura non categorica: non contraddittoriamente ammette modelli non equivalenti tra loro. Il risultato è che l’infinito non è ineffabile (come si pensa che i mistici pensino). L'infinito è "effabile", ma se ne può parlare solo parzialmente e con prudenza. I critici d’arte parlano del loro infinito: l’infinito scopico. I musicologi del loro: l’infinito della voce e del suono. Gli psicanalisti? Purtroppo gli psicanalisti, come Freud, non parlano di infinito, ritenendolo o una faccenda religiosa o tutt’al più un sintomo nevrotico ossessivo. L’unica volta che Freud parlò di infinito fu a proposito di analisi finita e infinita (Die endliche und die unendliche Analyse), ma gli psicanalisti italiani parlano di analisi terminabile e interminabile. Proprio di infinito non se ne vuol sentir parlare.

Ecco allora la mia rivalutazione del caso clinico. Raccontiamo pure dei casi clinici, ma non parliamone come si fa in medicina come storielle di traumi e agenti patogeni, che hanno causato la malattia. Lasciamo perdere la causa, anche se è freudiana. Lasciamo perdere il mito della malattia mentale. Parliamo, invece, delle esperienze estatiche che il soggetto fa del proprio oggetto infinito del desiderio. Sto rivalutando la dimensione romanzesca del caso? Quella che Freud voleva espungere, parendogli che contrastasse con il marchio della scientificità? (Vedi l'epicrisi del caso Elisabeth von R., citata in Contro i casi clinici). Certo, anche. Il romanzo non è in conflitto con la scienza, come credeva Freud. Basta tener presente che scienza e romanzo nascono insieme nel XVII secolo dalla stessa radice epistemica: la percezione dell'infinito.

La teoria che propongo è, allora, semplice. Il soggetto del desiderio, pur nella sua finitezza, è unico e non paragonabile ad altri soggetti, perché si confronta con un oggetto infinito, il quale, più che smisurato, è unico nonché sfuggente, direbbe Brouwer. Il confronto con l’unicità dell’oggetto trasferisce unicità al soggetto, se così si può dire. La storia clinica dovrebbe testimoniare l’unicità di questo trasferimento o transfert – se proprio vogliamo usare la parola abusata dalla psicanalisi – dall’oggetto al soggetto. Invece, le storie cliniche sono storie di conformazione. Si conformano non all’oggetto infinito, che sarebbe impossibile, ma alla dottrina psicanalitica di chi le racconta. Una brutta abitudine autoerotica, un vizio come masturbarsi o mangiarsi le unghie. Solo più collettivo.

Segnalo tuttavia una difficoltà. Unicità e formalizzazione matematica vanno a stento d'accordo. La formalizzazione matematica – tipica quella oggi più spinta, l'algebra delle categorie – arriva a stabilire l'isomorfismo (o equivalenza) tra oggetti diversi, non l'unicità dell'oggetto. Questa è una lunga e perserverante tradizione della matematica moderna, a partire dall'innovazione cartesiana, che ha introdotto in matematica un nuovo oggetto e un nuovo campo di ricerca: la teoria delle equazioni.

Cos'è un'equazione?

L'equazione è un'eguaglianza tra due cose diverse. Non è una contraddizione. L'equazione mette sui piatti della bilancia due cose che stanno in equilibrio: una nota e l'altra ignota. Risolta l'equazione ci si trova con un pacchetto di radici che non sono uniche, anche quando è una sola, perché si presenta in generale con una molteplicità diversa da uno. In un certo senso, anche il singoletto, cioè l'insieme formato da un unico elemento, non è unico, perché appartiene alla classe di equivalenza di tutti i singoletti. I singoletti (a), (b), (c) ... sono in effetti lo stesso singoletto, che si diffrange nelle singole presentazioni – insiemisticamente equivalenti.

Allora, risulta quasi impossibile formalizzare l'unicità del caso clinico, che deve per forza affidarsi a qualche trucco narrativo per essere presentato come tale. Anche qui con giudizio, però, perché sono sempre possibili narrazioni diverse per presentare lo stesso caso.

Ho dovuto fare questa precisazione, in un certo senso, a difesa della formalizzazione matematica. Alla quale non dobbiamo chiedere troppo e buttare via se non ci dà quel che esigiamo. Dalla formalizzazione matematica non possiamo esigere l'unicità. E' già tanto, e per questo dobbiamo esserle riconoscenti, se ci restituisce una classe di modelli equivalenti del fenomeno che vogliamo raccontare – qui il caso clinico.

Passando dalla difesa all'attacco, propongo un argomento, che ho sviluppato nella conferenza che ho tenuto all'ETH di Zurigo il 18 ottobre 2010 sulla genesi del sapere scientifico come passaggio dalla diacronia (empirica) alla sincronia (teorica):

Tra diacronia come tempo per comprendere
e
sincronia come momento di concludere

nell'originale tedesco

ZWISCHEN DIACHRONIE ALS ZEIT ZU VERSTEHEN

UND

SYNCHRONIE ALS MOMENT DES SCHLIESSEN.

La perplessità di Freud, di fronte ai propri casi clinici, scritti e letti come novelle, non è giustificata. La contrapposizione tra romanzesco e scientifico non ha senso. Romanzesca e scientifica sono due forme di ragionevolezza. Sono componenti epistemiche della teoria, diverse ma parzialmente integrabili, come la figura e la sua ombra. Non vanno l'una senza l'altra. La teoria delle superstringhe è per ora un bel romanzo matematico, forse un romanzo di fantascienza, che non ha avuto finora un riscontro sperimentale. Perché i fisici non l'abbandonano? Perché è esteticamente bella? Anche, ma soprattutto perché è feconda di nuove teorie. Non a caso, Edward Witten, unico fisico – ecco un caso singolare, addirittura singolo! –, ricevette nel 1990 la medaglia Fields per la matematica. Personalmente, se in psicanalisi disponessi di una teoria come quella delle superstringhe, smetterei di tenere aperto questo sito e ne aprirei un altro per annunciare teoremi psicanalitici.

Nell'attesa qualcuno mi potrebbe chiedere: "Ma tu, che critichi tanto i casi clinici, perché non ci presenti un caso clinico come l'intendi tu?"

La richiesta è ragionevole e posso esaudirla. Presento l'unico caso clinico che abbia mai scritto, su sollecitazione della mia analista. E' anche il mio primo caso professionale, risalente ormai a più di trentacinque anni fa. Non è una novella, ma quasi.

Il caso C.B.

Un giudizio complessivo sui casi clinici psicanalitici si trova nella conferenza che ho tenuto al Paolo Pini il 28 gennaio 2011, intitolata

I casi clinici in Freud e Jung.

In conclusione, siamo pro o contro i casi clinici?

Personalmente adotto una posizione terza, intuizionista, né a favore né contro i casi clinici. Quello che mi interessa è che non vengano confuse due dimensioni della verità: la dimensione letteraria (umanistica ed estetica) della verità narrativa e la dimensione scientifica della verità meccanicistica (da non confondere con deterministica). In particolare, mi preme che una dimensione non prenda il sopravvento sull'altra, magari ricorrendo a qualche blindatura dottrinaria, patrocinata da qualche falso maestro o promossa da qualche scuola, che propugni le falsità magistrali come verità incontrovertibili.

Di seguito riporto una serie di differenze tra le due dimensioni della verità, sparse qua e là in tutto il sito.

La verità umanistica è narrativa; quella scientifica meccanica.

La prima si produce e si sviluppa nella diacronia; la seconda “risuona” nella sincronia;

la prima si colloca nel  prolungamento del tempo, configurandosi in modo essenzialmente unidimensionale; la seconda abita le simmetrie dello spazio in modo essenzialmente multidimensionale;

la prima è pensata per immagini; la seconda per formule;

la prima ha bisogno di parole; la seconda di scritture;

la prima è singolare, legata com’è alla specifica narrazione e alla peculiarità del singolo caso; la seconda è intrinsecamente plurale, percorrendo spazi topologici di volta in volta diversi (Cfr. Raimon Panikkar: “La verità è presumibilmente pluralistica”, in Lo studio delle religioni, 1990) e trascurando spesso le particolarità delle "figure" in essi immerse se non come segni caratteristici (sintomi) dello spazio in cui sono ambientate;

la prima riguarda l'essenza e l'esistenza del soggetto che la enuncia; la seconda si riferisce a classi di oggetti eventualmente molto ampie;

la prima procede per conferme e verifiche, eventualmente basate su testimonianze di fatti; la seconda è essenzialmente di principio e procede superando i tentativi di falsificarla attraverso teorie alternative;

la prima si nutre di interpretazioni e commenti; la seconda di dimostrazioni e generalizzazioni;

la prima si arricchisce di indizi e di particolari finora non notati o non sviluppati; la seconda tende a far decadere vincoli precedenti e precostituiti attraverso assiomi sempre più deboli;

la prima tende a diventare categorica e assoluta (metafisica); la seconda resta congetturale e condizionata dagli assunti di base (fisica);

la prima non usa quasi mai argomenti probabilistici; la seconda opera attraverso il calcolo delle probabilità, che trasforma l'incertezza sul caso singolo in certezza sul caso medio.

C'è una considerazione clinica da trarre da queste differenze.

Freud ha sopravvalutato la dimensione narrativa o mitologica della verità. Ha relegato la dimensione meccanicistica nell’acting out. Nella sua lingua lo chiamava agieren, con un termine latineggiante di solito usato nel linguaggio teatrale per indicare la rappresentazione di una parte sulla scena. Ha commesso un errore da letterato, anche un po' inibito. Ciò ha fatto dire a un analista che inibito non era, tale Lacan: L'analyste a toujours horreur de son acte. Freud si è sbarazzato della dimensione meccanicistica (scientifica) della verità, relegando l’atto nella ripetizione dell’identico, a sua volta regolata dalla pulsione di morte sotto forma di coazione a ripetere. Poiché le pulsioni non spiegano scientificamente nulla, essendo petizioni di principio – un po’ come il papavero che fa dormire perché ha la virtus dormitiva – la verità dell’atto, o la verità in atto o, sozusagen, statu nascenti – è sfuggita a Freud. Grazie a questo "lapsus freudiano", dopo Freud la psicanalisi è scivolata in modo inarrestabile lungo la china della psicoterapia, che è un discorso medico senza verità soggettiva in atto. Dopo Freud nella psicanalisi la verità del soggetto è rimasta "in potenza" . (Il riferimento aristotelico non è casuale, essendo le pulsioni freudiane delle cause aristoteliche). Alla rimozione della verità in atto è dovuto probabilmente l'esito interminabile di tante analisi freudiane. A questo punto una precisazione si impone. Freud non scrisse mai "Analisi terminabile e interminabile" come ci vuol far credere la traduzione ufficiale italiana delle opere di Freud. Scrisse "Analisi finita e infinita". L'infinito cui Freud accenna (solo) nel titolo del suo saggio è quello in atto dell'oggetto. Ma sia l'atto sia l'infinito sono rimasti per Freud "atti mancati".

Note

(0) I dati, in generale, non confermano una congettura. C’è, tuttavia, un caso in cui la conferma si può avere. È il caso della popolazione finita. Il primo campione estratto da una popolazione suggerisce una congettura: vince il candidato A contro il candidato B agli exit poll di un ballottaggio. La congettura potrà essere confermata quando lo spoglio della votazione sarà completato. Peccato che si tratti di un caso scientificamente poco rilevante. (Torna su)

(1) Che effetti produce nel gruppo la relazione di un caso clinico? Fateci caso. Il relatore sale in cattedra, prendendo provvisoriamente il posto del maestro del gruppo. Chi ascolta la lezione in realtà non ascolta il caso, ma va elucubrando possibili commenti alla relazione e interpretazioni alternative del caso, che lui farebbe o avrebbe fatto al posto del relatore, di cui si ritiene più bravo, cioè miglior dottrinario. I risultati dell'esposizione di un caso clinico sono, appunto, commenti e interpretazioni. Con commenti e interpretazioni si fa solo della critica letteraria, non scienza. Non si commenta la teoria di Newton. Se ne deducono teoremi o si apportano controesempi. Che in un gruppo di dottrina sono proscritti. Il legame sociale di gruppo, essendo un legame basato sull'identificazione al maestro, non prevede la messa in discussione del "fondamento" dottrinario. (Torna su)

(2) A mio parere c'è una spiegazione poetica, anche un po' spiritosa – per noi italiani – dell'esperienza freudiana sull'Acropoli. "Sempre cara mi fu quest'erma Acropoli". In effetti, chiediamoci: cosa vide Freud dall'alto dell'Acropoli? Vide l'orizzonte, cioè il bordo dell'infinito. La prima volta? Certamente no. Ma altrettanto certamente non era un'esperienza che poteva fare quotidianamente nello squallido studio della Bergasse, dalla cui finestra vedeva solo il muro del cortile. Freud, insomma, si era premunito contro eventuali esperienze estatiche. (Torna su)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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